Prima però di uscire totalmente dal parlare delle vocali, e di loro vario suono, avvertir deggio che dell'ET nulla, rispetto all'uso, occorre dire, conciossiachè nell'alfabeto non ha luogo, come quella che da' Latini venuta, fu tolta via dal costume di servirsi in sua vece dell'E, e dell'ED; essendo io di parere che a poco servisse quando nelle scritture toscane del buon secolo fosse stata in uso, lo che nega il Salviati, non potendo aver fatto, secondo ch'io stimo, altra figura che di un segno, che distinguesse dall'E verbo la copula, e che per una semplice E si pronunziasse, nel modo stesso, che scrivendo la ET tuttora i Franzesi, non la pronunziano giammai, ancorchè ad una vocale preceda; riprova avendo noi della nostra in quei versi, che ne' testi a penna, per lo più del 1400, si veggiono così scritti:
Et ricercarmi le midolle, et gli ossi.
Come ti stavi altera, et disdegnosa.
Ma vidi bene et l'uno, et l'altro mosso;
donde ognuno apprende, che se tale fosse stata appunto la pronunzia, quale era la scrittura, ogni dolcezza, dote propria della lingua e del verso, andava in fumo. Nè credo già di dire cosa che non abbia tutto il suo fondamento quando affermo che gli antichi non pronunziavano assolutamente com'egli scrivevano, avendovi frequentemente di quei versi, che sono più lunghi un piede, come:
Ecco Cin da Pistoia, Guitton d'Arezzo:
. . . Uccise un Prete la notte di Natale,
ove nella voce Pistoia del primo verso, ch'è di Francesco Petrarca, e in quella di Prete dell'altro verso, che è del Burchiello, si troncava l'ultima sillaba.
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