Che se sgualdrina giammai profanò le mie soglie o l'altrui giovane schiavo per me stimolato fu al vizio, sia pur io, che il consento, di tutti gli uomini reputato il più malvagio e il più tristo. Che cosa direte or voi del mio contegno coi figli vostri, quando coi servi stessi sì continente io mi mostrai? Io ben mel so, o Quiriti, che nel dipartirmi da Roma, grave di denaio recavami la cintura, che pur vota oggidì ne riporto; e non sempre così fu; ché i precessori miei in Sardegna veniano colle anfore ripiene di vino e con le medesime traboccanti d'argento se ne dipartivano".
Testimonianza è questa quanto più solenne, tanto più credibile, delle virtù di Caio non meno che delle male usanze dei magistrati provinciali. Minor meraviglia perciò ne farà se dopo questo quadro d'un giovanetto di sublimi spiriti, di sangue generosissimo e di castigati costumi, io ad abbozzare mi faccia quello di un magistrato di poca levatura, d'un pretore cioè che filosofo era sì bene, ma filosofo epicureo.
Nomavasi egli Tito Albucio, cavaliere romano, e pretore fu nella Sardegna alcuni anni dopo il ritorno di Gracco [200] . Dotto era nella greca lingua, perché giovanetto in Atene dimorato avea ed ivi perfetto ellenista ad un tempo e squisito epicureo era diventato, talché più greco che romano oramai dicendosi, in Atene alla greca venia salutato dal pretore Scevola che facetamente in tal modo lo mordeva del suo fastidio delle cose dimestiche [201] . Quest'Albucio adunque tratto essendo a governar la Sardegna, due ricordi ebbe a lasciare nell'isola, uno di leggierezza, l'altro di nequizia.
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