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      Nel mentreché anche la signoria di Pisa, al primo avviso avuto della spedizione, inviava nell'isola settecento cavalli ed un numero copioso di pedoni. L'infante nel frattempo era anch'egli passato nel Porto Fangoso, ove attendevano il suo cenno, oltre a molti altri legni, venti galee valenziane, governate dall'ammiraglio Francesco Carròz, ed altrettante spedite dal re di Maiorca, capitanate da Ugone di Totzo, con un numero sì grande di combattenti, che ben ventimila avventurieri dovettero astenersi dal partire. Era presente all'imbarco il re colla regina e cogli altri suoi figliuoli, e nell'accomiatare l'infante, gravemente lo ammoniva: rammentasse le glorie belliche dei suoi maggiori; fosse in ogni scontro il primiero a lanciarsi contro al nimico; dalla valentia di un sol cavaliero dipender talvolta l'esito delle battaglie; ascoltasse le opinioni di tutti i suoi compagni d'arme; non privasse giammai se stesso della felicità di ricevere un buon consiglio, gli altri della gloria di darlo. Ad alta voce pronunziava infine il re per tre volte quelle parole che sì alto suonano nel cuore dei prodi: vincere, o morire [946] .
      Con tali auspizi veleggiava don Alfonso, accompagnato coll'infanta donna Teresa, sua consorte, che socia esser volle dei di lui cimenti e delle di lui glorie. Era il navilio composto di sessanta galee, di ventiquattro grosse cocche e di una quantità così grande di navi minori, che numeravansi in tutta la flotta trecento legni. Con questi approdò l'infante al capo di S. Marco presso ad Oristano.


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Storia di Sardegna
di Giuseppe Manno
pagine 1187

   





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