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      Non era questo un piato che si potesse dibattere nei tribunali; ché non la sola ricchezza si disputava, ma la potenza; e la potenza giudicò in ogni tempo per se stessa delle cose sue. Mentre perciò il viceré consigliavasi coi comuni suggetti al sovrano del modo di incorporare nel patrimonio regio quella provincia, il marchese la concitava alle armi; e facendo muovere da ogni banda le sue genti rispondea francamente alle fattegli rimostranze: esser il viceré suo particolare nimico; sarebbe di necessità ostile qualunque di lui giudizio; al solo re appartenere il tener conto dei titoli della successione e l'apprezzarli. Vedendo allora il viceré che le operazioni del marchese accennavano più alla guerra che alla sommessione, ragunava anch'egli le soldatesche catalane e sarde che avea sotto la mano, e passando al castello di Monreale, inviava dal vicino luogo di Sardara nuovi messaggi al marchese intimandogli l'obbedienza. E questi accendeasene sempre più a prorompere in aperta guerra; onde le di lui risposte sapeano meglio di signore e di nemico, che di vassallo. Né dissimili alle parole erano i fatti; giacché al tempo stesso che il viceré trasferivasi coi migliori suoi combattenti nella pianura di Uras, il marchese avanzavasi anch'egli per porglisi a fronte con valido esercito; e stimolava l'ardore dei suoi provinciali facendo risuonare ai loro orecchi quel grido di Arborea tante volte infausto per le armi aragonesi, e spiegando ai loro occhi il rispettato vessillo degli antichi giudici.


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Storia di Sardegna
di Giuseppe Manno
pagine 1187

   





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