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      Quando più caldo procedeva l'innamoramento, il marchese era improvvisamente spento per la mano di alcuni scherani. Davansi tosto due voci. Coloro che riferivano ai negozi pubblici ogni cosa tirandola al peggio, subodoravano le maggiori trame: avere il viceré per levarsi dagli occhi un tanto ostacolo ai suoi disegni tolto di vita il marchese; non essere straniera di quell'assassinio la marchesa di Camarassa, la quale per private cagioni avea qualche ruggine nell'animo contro all'ucciso; avergli nociuto l'ardente suo zelo, lo zelo sanguinario del nimico. Gli altri che sapevano, le prime fila le quali regolano il movimento apparente degli uomini e delle cose pubbliche, agitarsi il più delle volte in luogo privato ed oscuro, giudicavano diversamente: quei sicari essere stati prezzolati dallo drudo; non l'animoso oratore dello stamento militare essere stato da essi colpito, ma il marito infelice.
      Qualunque sia stata la verità di queste opposte asserzioni, i fatti mostrano che la credenza della reità del viceré s'infisse talmente nell'animo di alcuni dei più caldi partigiani del marchese, che le più terribili vicende dovettero conseguirne. Vennero in quella persuasione personaggi di conto: don Antonio Brondo, marchese di Villacidro, don Francesco Cao, don Francesco Portoghese, don Gavino Crixoni. Tuttavia fra questi nissuno fu meritevole di esser lagrimato al pari del marchese di Cea, don Iacopo Artaldo di Castelvì. Questo rispettato personaggio, già molto innanzi cogli anni; incanutito nel servire il sovrano meglio di otto lustri nella carica eminente di procuratore reale; decorato di onori militari negli stati di Fiandra pel suo valore e devozione al sovrano; ricco della pubblica estimazione, obbliando ad un tratto se stesso, lasciossi innescare dagli aggiramenti della vedova marchesa, sua nipote.


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Storia di Sardegna
di Giuseppe Manno
pagine 1187

   





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