Cinto d'eterna luce a te scendeaCon l'alto annunzio il messaggiero santo;
E come l'umiltà con degna scusaIn te di tanta grazia il ben ricusa.
E come al replicar di tanto autoreTe medesma offeristi ancella umile
All'eterno voler del tuo Signore,
Che a farsi in te veniva a noi simile;
E come per noi uomo il Creatore
Si fé nell'alvo tuo sagro e gentile;
E come senza affanni e senza offeseChiuso in te crebbe infino al nono mese.
Questo nostro poeta ebbe comune con la maggior parte dei poeti l'essere o il parere innamorato. Ebbe comune con alcuni dei più infelici il verseggiare in prigione. Molti dei suoi sonetti indirizzati al vescovo della sua patria don Francesco Fara (quello stesso che scrisse la storia sarda), si aggirano sulle disgrazie della sua lunga prigionia. Anzi da molte allusioni contenute nelle sue rime chiaramente s'inferisce che i di lui amori abbiano molto influito nelle di lui disavventure. I tre sonetti intitolati agli inquisitori dell'isola dimostrando ch'egli fu sottoposto a lungo processo avanti al loro tribunale, lascierebbero luogo a sospettare di qual tempera fossero quei di lui amori; se maggiormente non convenisse l'indagare il valor poetico che le debolezze di questo scrittore; il quale nel descrivere con patetiche querimonie il dolente suo stato è più volte felice. Pare ch'egli avesse viaggiato in Italia, e vi avesse stretto conoscenza con vari illustri personaggi, e specialmente col più illustre dei poeti italiani di quell'età, cioè col gran Torquato; del quale scrive in un suo sonetto come d'uomo di cui avesse in addietro goduto la famigliarità. Giovami fra le varie di lui rime scegliere una sua ode che potriasi chiamare olimpica, perché i cimenti olimpici di quel tempo vi si cantano; vale a dire un torneo celebrato da don Giovanni Carriglio.
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Creatore Francesco Fara Italia Torquato Giovanni Carriglio
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