[226] Quintiliano, Instituto oratoria, lib. VII, 2.
[227] È degna d'esser notata in questo frammento la finissima ironia con cui quel sommo oratore rallegra l'animo dei giudici, allorquando sul capo d'Ari e della sua druda tenta di far cadere il sospetto della morte della vecchia moglie di questo teste. Scherza in primo luogo Cicerone sul supposto di lei suicidio e sulla causa assegnatane, di difendere cioè la propria pudicizia: e rammentando la rarità dei suicidi presso gli antichi e le dottrine citando dei filosofi, chiede se quella sarda addottrinata erasi alla scuola di Pitagora o di Platone, e se con tanta deformità di volto e peso d'anni era da presumere che fosse stata spinta ad alcun difficile cimento. Venendo poi al mandato d'uccisione, ch'egli suppone dato da Ari ad un suo liberto, dice essergli stato commesso non già di fare a quella vecchierella violenza alcuna, che ciò onesto non era colla moglie dell'antico suo padrone, ma solo di serrarle la strozza con le due minori dita, e di cingerla quindi d'una cordicella, acciò comparisse vittima di strangolo volontario". L'avvertenza impiegata da Cicerone nel profondere in questo squarcio i vocaboli diminutivi diretti od a far maggiormente risaltare l'ironico suo dire, od a dipingere la debolezza della vecchierella, dà una grazia tale di dicitura a queste poche linee, che a stento può imitarsi in una traduzione.
[228] In quest'arringa infatti oltre qualche altra notizia, della quale a suo luogo caderà in acconcio il parlare, si contiene la menzione di alcuni Sardi illustri, i quali, nel vivente di Cicerone, meritarono (e ciò non è poco) i di lui encomi.
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