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      Il vaporetto ci accompagnò ancora, volendo gareggiare col Thames: pareva che tutto quel pianto e quell'agitar di braccia e quei tenerissimi saluti facessero raddoppiare la forza dei suoi movimenti, e scivolava e correva nel solco glauco e spumeggiante che il nostro vapore apriva nelle onde del mare inglese. E finché ognuno potè riconoscere il volto dei suoi cari in mezzo a quel tramestìo di gente, e finché più lontano ancora il cuore potè discernere qual fosse il cuore che agitava il moccichino, il nano accompagnò il gigante, e poi virò di poppa e si diresse verso la costa.
      Allora un grido lontano, un'armonia straziante di singhiozzi e di angoscia si sentì per l'ultima volta e si perdette nel ciclopico martellar della macchina che andava conquistando l'oceano colle sue ruote smisurate.
      Io contemplava e meditava tristi cose. I miei compagni di viaggio si erano subito divisi in due schiere, quasi invitati da un muto cenno di comando. I più erano a poppa, i meno a prora.
      I primi accalcati dietro il timone sull'ultimo lembo della nave, non potevano distaccarsi dalla terra che l'occhio poteva chiamar ancora sua. Essi volevano fino all'ultimo momento raccogliere le voci e i profumi della patria, dove lasciavano tanta parte di sé stessi. I passeggeri di poppa erano gli infelici strappati alla terra che li aveva veduti nascere dalla bufera delle passioni. Là dove guardavano avevano il cimitero della madre, la culla del proprio bambino, l'albero di quercia dove una sera avevano dato il primo bacio di amore.


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Un giorno a Madera
di Paolo Mantegazza
Casa Editrice Bietti Milano
1925 pagine 147

   





Thames