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      Alzato da quel letargo che avrei voluto durasse tutta la vita, rientrava nel mio studio, rileggeva la mia lettera, e immaginandomi di essere voi stessa, rispondeva una lunga lettera a William, e la piegava e vi scriveva il mio indirizzo. A voi devo dir tutto, perché sappiate quanto io vi ami. Più d'una volta ho impostato quella vostra risposta fatta da me e ho giubilato, quando il mio servo me la portava col bollo della posta.
      Questa non era sicuramente la vita che voi mi avevate imposto di vivere, ma io non poteva condurne un'altra; e fuori di essa non poteva intendere e immaginare che il suicidio. Voi mi avevate scritto di studiare, di rialzare i caduti, di confortare gli avviliti, di seminare la gioia e la verità intorno a me; ma il vostro povero William, invece, non sapeva fare che una cosa sola: amarvi, amarvi con tutta la forza che dà la disperazione.
      Poco a poco però quell'esaltazione continua in cui mi trovava, quell'immaginarmi vivo e attivo in un mondo che non esisteva, mi trassero in una specie di demenza, in una vera follia che mi mettava paura più che la morte: fin da giovinetto ho sempre avuto più orrore di quella morte della ragione che si dice la pazzia, che della morte intiera che non è poi se non la negazione della vita, la negazione d'una ben povera cosa.
      Allora risorsi ad un tratto come una molla compressa da lunghi anni e che, levato il peso, solleva e schianta ogni ostacolo. In pochi minuti, vidi chiaro il mio posto nel mondo, sentii che tre mesi di separazione mi avevano fatto sempre più innamorato di voi, sentii che senza di voi la vita era per me un peso insopportabile, una tortura senza nome.


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Un giorno a Madera
di Paolo Mantegazza
Casa Editrice Bietti Milano
1925 pagine 147

   





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