Non era un brivido di malessere, non era il freddo dell'ambiente, ma era un freddo dell'anima che mi obbligò a rannicchiarmi in me e a raccogliere il mio scialle, le mie vesti, le mie braccia, quasi volessi accartocciarmi in me stessa per non disperdere il mio tepore interno. In quella camera tutto silenzio e tutta simmetria, non vi era un solo oggetto che non fosse necessario, non il più piccolo quadro, non il più microscopico trastullo di chincaglieria: non un fiore, non una cosa sola che ti dicesse che il padrone di casa amasse il bello, o avesse un gusto, una simpatia. Perfino i colori coi loro contrasti vivaci e colle loro armonie sembravano banditi da quel luogo, in cui regnava sovrana la matematica. Chiusi gli occhi ed aspettai il dottor T. che non tardò molto a comparire. Anch'egli era freddo ed incolore come la sua sala; egli era davvero il bruco di quella crisalide. S'inchinò leggermente senza parlare, prese una sedia e senza parlare mi guardò, aspettando che incominciassi la mia storia dolorosa.
Alzai gli occhi due o tre volte sopra di lui e due o tre volte li abbassai, cambiando, senza volerlo, lo sguardo, l'espressione del mio volto, quasi volessi trasformare quegli occhi spenti e freddi che non dicevan nulla, ma mi facevan paura. Io non ho mai potuto parlare ad anima viva senza sentirmi legata ad essa per un nervo invisibile che mi faccia vibrare insieme alla persona che mi parla; non ho mai potuto immaginarmi che due uomini possano dirigersi quel fiato dell'anima che si chiama la parola, senza che un'atmosfera di odio o d'amore, di ammirazione e di disprezzo non li riunisca e li confonda.
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