E, studiando con tutte le mie forze di farmi vicino a quell'uomo di ghiaccio, procurava di farmi fredda alla mia volta, di atteggiarmi al suo portamento di modificare il mio gesto, il mio sguardo, le mie parole, sicché trovassi con lui qualche punto di contatto. Inutili sforzi! Io e il dottor T. eravamo due creature umane, ma separate da un abisso maggiore di quel che allontana la vespa dal fiore, il lupo dal canarino.
In furia ed in fretta esposi lo scopo della mia visita, dissi delle opinioni già espresse da altri medici sul conto mio, esposi per la centesima volta la diagnosi stetoscopica del mio male; cercai col dir tutto in un fiato di risparmiarmi anche un minuto solo di quella conversazione odiosissima. Egli taceva sempre; mi lasciava dire, e non una piega del volto, non un moto dell'occhio mi diceva ch'egli fosse vivo. Eravamo due corpi vivi che eran vicini e l'azione morale dell'uno sull'altro incominciava a farsi chiarissimo: io odiava già cordialmente il dottor T.
Finalmente, quando ebbi detto il possibile e l'impossibile, quel che sapeva e non sapeva sulla mia malattia dopo aver parlato per un quarto d'ora di seguito con una volubilità convulsiva, tacqui e aspettai che quell'anfibio vivente parlasse. Sperava che almeno la sua voce dovesse esser calda. Esiste forse nel mondo una creatura che sia tutta bruttezza e gelo?...
Il dottor T. freddissimamente soggiunse:
- Tutta quanto avete detto, sta bene; ma è inutile. Dobbiamo esaminare gli organi.
E, quasi fosse già stanco di aver tanto parlato, si alzò e col dito mi accenno una ottomana che stava in un angolo della sala disposta appunto per l'esame dei malati.
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