Quasi ubbidissi al cenno di un tiranno, mi alzai; ma volendo pregarlo che mi risparmiasse un'inutile tortura perché i miei polmoni erano già stati sottilmente esaminati da una commissione di medici, tentai balbettare una preghiera, una scusa; mormorai:
- Perdoni... ma...
Crollò il capo con un'aria di scetticismo e di sprezzo, e con un gesto più imperioso dell'indice destro mi accennò per una seconda volta l'ottomana, su cui doveva gettarmi. Era un letto di pelle lucida, senza una macchia, ma freddo freddo, come l'aria di quella sala, come il colore di quell'atmosfera, come le parole di quel medico.
E allora, lasciamelo dire colle parole di un nostro poeta:
The grave physicianBy the trembling patient stands,
Like some deftly skilled musician;
Strange! the trumpet in his hands,
Whilst the sufferer's eyebal glistens,
Full of hope and full of fear.
Quietly he bends and listensWith his quiet accustomed ear.
Then thou whisperest in his earWords which only he ean ear
Words of woe and words of chearJubilates thou hast soundend
Wild exulting sound of gladness;
Misereres have aboundedOf unutterable sandness. [1]
Ah, carissimo William, come è tenera, com'è calda la poesia, anche quando parla dello stetoscopio e della morte! Essa illumina ogni cosa coi raggi dorati della fantasia, essa getta i suoi petali di rose, e i suoi torrenti di gigli e di viole sulle arene di un deserto e sulle zolle di un cimitero. Grazie, mille grazie, mio Dio, di avermi dato la poesia e la musica, questi sublimi fuggitivi del tuo paradiso!
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William Dio
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