A domani.
William a Emma.
Londra, domenica.
Tu mi hai dette più d'una volta, mia Emma, mia dolcissima Emma, che noi pensavamo sempre insieme le stesse cose; e che quando io ti esponevo le mie idee, fossero pur nuove e strane, tu subito le intendevi e ti pareva di averle già pensate; e più che capirle, ti pareva ricordarle. Ebbene se ciò è vero, se le fantasie del tuo cuore non ti trasportano nel mondo degli spiriti, tu ieri, devi con me aver navigato un grosso mare, devi aver lottato contro una orrenda procella, devi infine esserti ritirata stanca, ma confortata nel porto della consolazione.
Stammi a sentire, dolcissima Emma, siediti in quella tua seggiolina azzurra, bassa bassa, dove suoli rannicchiarti quando mi guardi in alto, sicché io, stando in piedi, bevo la luce dei tuoi occhi in quell'abisso profondissimo delle tue pupille. Intreccia le tue dita; sicché una mano sappia quel che l'altra sente, e piegata sopra te stessa, come se tu fossi in un nido, fa silenzio e stammi a sentire.
Ieri mattina io m'era alzato di mal umore, né sapeva il perché. Per quanto adoperassi e stancassi quell'organo del cervello umano che ha l'incarico di cercare la ragione delle cose (anche quando queste non hanno ragione alcuna fuorché di essere quel che sono) io non sapevo spiegarmi perché tutto vedessi attraverso un velo di morte... Il cuore mi suggeriva la pietosa menzogna che io era triste, perché da tre giorni non ti aveva veduto; ma l'amore della verità di cui tu hai saputo fare in me una religione, mi diceva che quella cagione del mio dolore non era vera; perché molte volte aveva passata una settimana e più lungo tempo ancora senza vederti e non aveva sentito quel tormento dell'anima che mi faceva toccare un'ortica dappertutto dove muovessi un dito, mi faceva vedere una luce odiosa dappertutto dove avessi rivolto il mio sguardo.
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Emma Emma Emma Emma
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