Ma a che parlo io di lagrime, quando l'uomo è fatto per il riso, e quando i piaceri infiniti di questa vita fanno sparire nel mare della gioia le lagrime solitarie? E che può mai una stilla di fiele caduta in un oceano di latte?
Sì, ma a quella goccia di fiele se n'aggiunge un'altra e poi un'altra ancora e sempre più amara; e al palato squisito dell'uomo che sente si fa sentire nel fondo del vaso l'amaro che vi era celato. E quell'amaro discende anch'esso, filtrando nel cuore e vi lascia il suo solco e quell'amaro serpeggia col sangue in ogni fibra, in ogni midolla e l'uomo non si sente felice.
Sì, l'uomo è infelice; è nato al pianto, è incatenato da una legge fatale ad una grama esistenza che abborre e desidera nel tempo stesso.
Incapace di togliersi il tormento che lo cruccia, non ha il coraggio di morire, né la scienza di vivere; non ha il sentimento che per raddoppiare il dolore, non ha la mente che per intendere tutta l'immensità dei suoi patimenti.
L'uomo è un eterno desiderio saldato a fuoco con un eterno pianto. La mente lo trasporta in orizzonti che i suoi piedi non possono toccare; il suo cuore vuol espandersi, quando una mano di ferro lo stringe.
L'uomo è la più imperfetta, la più miserabile, la più ammalata creatura dell'universo.
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E qui, mia buona Emma, lasciai cadere la penna che pochi momenti prima aveva afferrato col piglio di un generale vittorioso, e mi confessai vinto.
In questa confessione però vi era più malinconia che amarezza; perché il lottare eleva l'uomo anche quando la battaglia è senza vittoria e solo è spregevole chi rifiuta la lotta e si dà vinto prima di battersi.
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Emma
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