Una sola cosa avvi di santo per il poeta, ed è il Vero. Nelle prime parole «sentire e meditare» dà la formola dell'equilibrio fra sentimento e ragione che allora credeva di dover mantenere per tutta la vita.
Manzoni aveva in Milano tre dilettissimi amici: Giambattista Pagani, Ignazio Calderari e Luigi Arese. Quest'ultimo passa, attraverso la giovinezza di Manzoni, come un'ombra che diffonde intorno una dolce mestizia. Le sue lettere e quelle del nostro autore ci dànno quasi i tratti, della sua fisionomia e del suo carattere: doveva essere un giovane coetaneo d'Alessandro, col viso pallido, improntato di quella stanchezza e di quella melanconia che sono i segni fatali con cui la tisi tocca gli sventurati che la morte deve riconoscere per suoi. Le sue lettere, che abbiamo potuto vedere, spirano un patetico senza ostentazione, ch'è rivelatore di debolezza, e, nello stesso tempo, un intenso amore alla virtù, un veemente sdegno per ogni ingiustizia o sopruso, un affetto profondo per gli amici, in ispecie per Manzoni e per la costui madre. Nel 1807 (doveva esser poco più che ventenne) la tisi si dichiarò senza rimedio: e i parenti, dopo aver partecipato all'infermo la sentenza di morte che su lui aveva proferita la scienza, proibirono che gli amici si recassero a confortarlo, per timore gli ricordassero le libere idee in cui erano vissuti insieme, mentre essi volevano circondarne l'agonia colle formalità cattoliche. Il Manzoni ne fu informato dal Calderari; e s'indignò che l'amico dovesse morire coll'«orribile figura di un prete» davanti agli occhi.
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