Io preferisco l'indifferenza naturale dei Francesi, che vi lasciano andare pei fatti vostri, allo zelo crudele dei nostri che s'impadroniscono di voi che vogliono prendersi cura della vostra anima, che vogliono cacciarvi in corpo la loro maniera di pensare, come se chi ha una testa, un cuore, due gambe e una pancia, e cammina da sè, non potesse disporre di sè e di tutto quello che è in lui a suo piacimento.»
Il povero Arese morì un mese dopo; e il Manzoni, appena ricevè la luttuosa notizia, mandava da Parigi (30 ottobre 1806) agli amici questa lettera affettuosissima nella quale campeggia la speranza di una vita immortale:
«O Arese, giovine buono, amico vero della virtù e degli amici, giovine che in tempi migliori saresti stato perfetto, ma che nella nostra infame corruttela ti conservasti incontaminato, ricevi un vale da quelli che ti amarono caldamente in vita, e che ora amaramente ti desiderano. Povero Calderari, tu lo amasti, tu lo desideri e tu non hai potuto vederlo, consolarlo! Egli è morto nel fiore degli anni, nella stagione delle speranze, e l'ultimo oggetto che i suoi occhi hanno veduto non è stato un amico. Egli che era degno di amici! Povero Calderari! mia madre ed io piangiamo sopra di Arese e sopra di te. Seppi da Buttura che tu eri assiduo alla sua porta, che le tue lagrime mostravano la forza del tuo affetto, ma invano. Noi rileggiamo le lettere di Arese, quel che ci resta di lui, quello che rimane in questo mondaccio di quell'anima fervida e pura. Odi quello che egli ci scrisse nell'ultima lettera, dove traspira quasi un presentimento della sua separazione.
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