Era naturale che lo irritasse l'espressione così falsa di quegli affetti che si sfogavano cogli «idol mio» coi «mio dolce bene» cogli «animo mio» e altre siffatte da far venire il latte alle ginocchia.
I versi che scrisse in morte dell'Imbonati cominciano ancora colle consuete Euterpe ed Erato; ma quelle parole son quasi il pedaggio che paga il viandante per passare un ponte; una volta sciolto il suo debito alle Muse, la natura piglia il sopravvento sull'artificio e il poeta si abbandona liberamente alla sincerità del sentimento e del pensiero. Nessuna mitologia, nè pagana, nè cattolica, si frappone più fra lui e l'idea; questa sgorga vestita della sua forma più schietta, presagio felice di quel che avvenne più tardi, quando la rivoluzione fu compiuta. La satira campeggia nel carme; ma ancor questa comincia a manifestare i primi sintomi della trasformazione che trionfò nel romanzo. Confessa egli stesso che non fu consiglio di maligno petto, se scelse tal genere di poesia; ben volentieri consacrerebbe l'ingegno a cantar la virtù, se di questa un raggio vedesse splendere in terra. Ma lo move a sdegno la dura e disuguale guerra del giusto solitario contro i molti perversi affratellati nel nuocere. Egli non ama correre dietro, insieme alla folla, al piacere, al vano onore o al lucro, e non ama il consorzio degli uomini che stimano virtuosi quanti non sono colpevoli, e poi quali è
il Len far portentoE somma lode il non aver peccato.
Ecco la prima radice, senza cercarla nel cattolicismo, di quell'amore operoso del prossimo, che traluce in tutti i suoi scritti.
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