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      Ma sia come si sia, que' pezzi gli avevano: e se credevano che in quella scrittura ci potesse esser qualche indizio del delitto, potevan rimetterla insieme, e leggerla come prima: il Mora stesso gliel aveva suggerito. Anzi, chi mai crederà che non l'avessero già fatto?
     
      Intimaron dunque al Mora, con minaccia della tortura, che dicesse la verità su que' due punti. Rispose: già ho detto quello che passa intorno alla scrittura; et puole il Commissario dir quello che vole, perché dice un'infamità, perché io non gli ho dato niente.
     
      Credeva (e non doveva crederlo?) che questa fosse in ultimo la verità che volevan da lui; ma no signore; gli dicono che non se gli ricerca questa particolarità, perché sopra di essa non s'interroga, né si vole per adesso altra verità da lui, che di sapere il fine perché ha scarpato (stracciato) la detta scrittura, et perché ha negato et neghi che il detto Commissario sia stato alla bottega sua, mostrando quasi di non hauer cognitione di lui.
     
      Non si troverebbe, m'immagino, così facilmente un altro esempio d'un così sfrontatamente bugiardo rispetto alle formalità legali. Essendo troppo manifestamente mancante il diritto d'ordinar la tortura per l'oggetto principale, anzi unico, dell'accusa, volevano far constare ch'era per altro. Ma il mantello dell'iniquità è corto; e non si può tirarlo per ricoprire una parte, senza scoprirne un'altra. Compariva così di più, che non avevano, per venire a quella violenza, altro che due iniquissimi pretesti: uno dichiarato tale in fatto da loro medesimi, col non voler chiarirsi di ciò che contenesse la scrittura; l'altro, dimostrato tale, e peggio, dalle testimonianze con cui avevan tentato di farlo diventare indizio legale.


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Storia della colonna infame
di Alessandro Manzoni
pagine 132

   





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