Posto il principio che "nessuno commette un delitto senza cagione"; riconosciuto il fatto che "molti deboli d'animo avevan confessato delitti che poi, dopo la condanna, e al momento del supplizio, avevan protestato di non aver commessi, e s'era trovato infatti, quando non era più tempo, che non gli avevan commessi", la giurisprudenza aveva stabilito che "la confessione non avesse valore, se non c'era espressa la cagione del delitto, e se questa cagione non era verisimile e grave, in proporzion del delitto medesimo(68) ". Ora, l'infelicissimo Mora, ridotto a improvvisar nuove favole, per confermar quella che doveva condurlo a un atroce supplizio, disse, in quell'interrogatorio, che la bava de' morti di peste l'aveva avuta dal commissario, che questo gli aveva proposto il delitto, e che il motivo del fare e dell'accettare una proposta simile era che, ammalandosi, con quel mezzo, molte persone, avrebbero guadagnato molto tutt'e due: uno, nel suo posto di commissario; l'altro, con lo spaccio del preservativo. Non domanderemo al lettore se, tra l'enormità e i pericoli d'un tal delitto, e l'importanza di tali guadagni (ai quali, del resto, gli aiuti della natura non mancavan di certo), ci fosse proporzione. Ma se credesse che que' giudici, per esser del secento, ce la trovassero, e che una tal cagione paresse loro verisimile, li sentirà essi medesimi dir di no, in un altro esame.
Ma c'era di più: c'era contro la cagione addotta dal Mora una difficoltà più positiva, più materiale, se non più forte.
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Mora Mora
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