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      Alla prima domanda rispose: io non ho fatto né questo, né altri delitti; et moro perché una volta diedi d'un pugno sopra d'un occhio ad uno, mosso dalla collera. Alla seconda: io non ho alcuni compagni, perché attendeuo a far li fatti miei; et se non l'ho fatto, non ho né anche hauuto compagni. Minacciatagli la tortura, disse: V.S. facci quello che vole, che non dirò mai quello che non ho fatto, né mai condannarò l'anima mia; et è molto meglio che patisca tre o quattro hore de tormenti, che andar nell'inferno a patire eternamente. Messo alla tortura, esclamò nel primo momento: ah, Signore! non ho fatto niente: sono assassinato. Poi soggiunse: questi tormenti forniranno presto; et al mondo di là bisogna starui sempre. Furono accresciute le torture, di grado in grado, fino all'ultimo, e con le torture, l'istanze di dir la verità. Sempre rispose: l'ho già detta; voglio saluar l'anima. Dico che non voglio grauar la conscienza mia: non ho fatto niente.
     
      Non si può qui far a meno di non pensare che se gli stessi sentimenti avessero data al Piazza la stessa costanza, il povero Mora sarebbe rimasto tranquillo nella sua bottega, tra la sua famiglia; e, al pari di lui, questo giovine ancor più degno d'ammirazione, che di compassione, e tant'altri innocenti non avrebbero nemmen potuto immaginarsi che spaventosa sorte sfuggivano. Lui medesimo, chi sa? Certo per condannarlo, non confesso, e su que' soli indizi, e quando, non essendoci altre confessioni, il delitto stesso non era che una congettura, bisognava violare più svelatamente, più arditamente, ogni principio di giustizia, ogni prescrizion di legge.


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Storia della colonna infame
di Alessandro Manzoni
pagine 132

   





Piazza Mora