Ma ora gli diede in suo cuore tutti i titoli contro i quali l'aveva difeso in altre occasioni. Ma l'ira sua maggiore era forse contro quei due sposi che in fondo erano la prima cagione di una tanta sua angustia. Ragazzi, - andava ripetendo - ragazzi, non pensano che a maritarsi e non si fanno carico dei fastidj in cui pongono un galantuomo.
Colla compagnia di questi pensieri giunse a casa, chiuse diligentemente la porta e andò a gettarsi su un seggiolone nel suo salotto, dove la sua serva Vittoria stava parecchiando la tavola per la solita cena. Poche cose a questo mondo sono più difficili a nascondersi di quello che sieno i pensieri sul volto d'un curato agli occhi della serva. Ma lo spavento e l'agitazione di Don Abbondio erano così vivamente dipinti negli occhi, negli atti e in tutta la persona che per distinguerli non vi sarebbero bisognati gli occhi della vecchia Vittoria.
«Ma che cosa ha, Signor padrone?»
«Niente niente».
Questa risposta di formalità, Vittoria se la doveva aspettare, e non la contò per una risposta, e proseguì.
«Come, niente? Signor padrone: ella ha avuto uno spavento: vuol darmi ad intendere?...»
«Quando dico niente», ripigliò Don Abbondio con impazienza, «o è niente, o è cosa che non posso dire». Vittoria, vedendolo più presso alla confessione che non avrebbe sperato in due botte e risposte, andò sempre più incalzando.
«Che non può dire nemmeno a me? Oh bella, chi si piglierà cura della sua salute? Chi rimedierà?...»
«Tacete, tacete, e non parecchiate altro, che questa sera non cenerò».
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Vittoria Don Abbondio Vittoria Vittoria Don Abbondio
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