L'emigrazione di molti lavoranti suppliva per così dire alla diminuzione del lavoro lasciandone a sufficienza a quelli che rimanevano. In progresso di tempo crescendo a dismisura le cause che avevano diminuita quella industria, essa fu ridotta quasi a niente. Oltre la sua professione aveva Fermo un pezzo di terra che faceva lavorare, e che lavorava egli stesso nel tempo in cui era disoccupato dal filatojo, dimodoché non aveva a contrastare col bisogno. Era in quel giorno vestito dalla festa con piume di vario colore al cappello, col suo coltello dal bel manico, e mostrando in tutto l'abito e nel portamento un'aria di festa e nello stesso tempo di braveria, comune a quei tempi anche agli uomini i più quieti, come infatti era Fermo. L'accoglimento serio, freddo, misterioso di Don Abbondio fece un contrapposto singolare coi modi gioviali e risoluti di Fermo. Ecco una parte del dialogo curioso che ebbe luogo fra quei due: «Son venuto, signor Curato», disse il giovane, «per sapere a che ora le convenga che noi veniamo alla Chiesa».
«Di che giorno intendete?»
«Oggi, Signor curato; non siamo intesi così?»
«Oggi?» replicò il curato come se ne sentisse parlare per la prima volta. «Oggi, non posso».
«Come non può? che cosa è accaduto?»
«Prima di tutto non mi sento bene, vedete».
«Ma grazie al cielo il suo incomodo non è serio, e quello ch'ella ha da fare è cosa di sì poco tempo, e di sì poca fatica...»
«E poi, e poi, e poi...»
«E poi che cosa, Signor curato?»
«E poi ci sono degl'imbrogli».
«Degl'imbrogli? che imbrogli ci ponno essere?
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