Ella sa che io non so il latino».
«Dunque se non sapete le cose, rimettetevene a chi le sa».
«Mi rimetterò alla ragione, quando ella me ne dia una, e mi dica quello che vuol da me, perché io non capisco niente».
«Tutti questi che vi ho detti, sono impedimenti, e non son tutti, eh, ce n'è una filza».
«Insomma al mio matrimonio c'è un impedimento?»
«Ve ne possono esser dieci, dodici».
«Voglio sapere quale è l'impedimento a fare il mio matrimonio».
Fermo disse queste parole con voce tranquilla ma con un rovello interno che cercava di contenere.
Don Abbondio non si avvide dello sforzo di Fermo, e tra perché lo conosceva come giovane buono e l'aveva provato sempre rispettoso e quieto, e tra perché il dover sempre arzigogolare pretesti, mentre aveva una buona ragione che non poteva dire, lo aveva messo di mal umore, vi si abbandonò e rispose con tuono di corruccio e d'impazienza. «Voglio, voglio, tocca a voi dir: voglio?» Queste parole sciolsero l'ultimo freno alla pazienza di Fermo che già aveva voluto scappare più volte, come il lettore avrà veduto nel caldo crescente delle sue risposte. «Lo voglio per...» gridò con una subita trasformazione, «e s'ella crede di farsi beffe di me perché son povero figliuolo, le farò vedere che quando mi si fa torto, so fare anch'io uno sproposito come qualunque signore».
«Via via», rispose Don Abbondio spaventato, «non siete più quel buon giovane ch'eravate?»
«Mi dia ragione, se non vuol portarmi fuori di me».
«Se volete ch'io possa parlare tranquillatevi».
«Son tranquillo, e parli».
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