«Avete fatta una bella azione. Mi avete reso un bel servizio». «Signor Curato», interruppe Fermo che provava una gioja trista e feroce di conoscere il suo nemico, «Signor Curato, ho fallato, le domando scusa, ma si metta una mano al petto, e pensi se nel mio caso Ella avrebbe avuto più pazienza».
«Sì sì, voi sarete cagione della morte del vostro Curato: aprite almeno, aprite».
Fermo sentiva un vero rimorso di aver minacciato e trattato a quel modo il Curato, e gli domandò di nuovo perdono sommessamente. «Aprite, aprite», replicò il Curato. Fermo si tolse la chiave di tasca, e la presentò al curato col volto confuso d'un uomo che sente d'aver commessa una violenza. Il Curato la prese, aperse, e andò verso l'uscio della via, mentre Fermo lo seguiva colla testa bassa, e fremendo nello stesso tempo. Quando furono sulla porta: «Mi promettete ora», disse il curato, «di non dir niente?» Fermo, senza rispondere gli chiese di nuovo perdono e
da lui che molto anco voleachiedere e udir qual lume al soffio sparve.
Don Abbondio dopo d'averlo invano richiamato, tornò in casa, cercò Vittoria; Vittoria non v'era; egli non sapeva più quello che si facesse.
Spesse volte personaggi assai più importanti di Don Abbondio trovandosi in situazioni imbrogliate a segno di non sapere quale determinazione prendere, e non avendo nulla di opportuno da fare, e non potendo stare senza far nulla senza una buona ragione, trovarono che una febbre è una ragione ottima, e si posero a letto colla febbre. Questo disimpegno Don Abbondio non ebbe bisogno d'andarlo a cercare perché se lo trovò naturalmente.
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