«Venite tardi in tutti i modi», rispose Don Abbondio. «Basta, vediamo».
«Sono venticinque buone lire di quelle con Sant'Ambrogio a cavallo», disse Toni cavando un gruppetto di tasca.
«Vediamo», replicò il curato: le prese, le volse e le rivolse e le numerò, e furono trovate irreprensibili.
«Ora signor curato mi darà gli orecchini e la collana della mia povera Tecla».
«È giusto» rispose don Abbondio; e andò ad un armadio e cacciata una chiave, guardandosi intorno come per tener lontani gli spettatori, aperse una parte d'imposta, riempì l'apertura colla persona, introdusse la testa per guardare e un braccio per ritirare il pegno; lo ritirò, chiuse l'armadio, svolse la carta dov'era il pegno, e guardatolo, «c'è tutto?» disse, indi lo consegnò a Toni.
«Ora», disse Toni, «mi favorisca di una riga di quitanza».
«Non vi fidate?» rispose bruscamente Don Abbondio. «Ecco volete darmi anche quest'incomodo».
«Che dice ella mai? S'io mi fido, Signor Curato: ma dalla vita alla morte...»
«Bene, bene, come volete. Oh che seccatura! Bisognerà ch'io ponga inchiostro nel calamajo. Perpetua, dov'è costei? Perpetua!»
«Perpetua era da basso, tutta affacendata a prepararle da cena: la lasci stare, Signor Curato: cerchi il calamajo che farà più presto».
Così brontolando tirò un cassettino del tavolo, ne tolse carta, penna e calamajo, e si pose a scrivere, dettandosi col capo sulla carta ad alta voce la composizione. Frattanto Toni, e Gervaso com'era convenuto si posero dinanzi allo scrittore in modo da togliergli la veduta della porta; e come per ozio andavano soffregando coi piedi il pavimento, per dar agio ai di fuori di venire avanti senza essere intesi.
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