«E la Signora, perché non viene ad ajutarci?» disse l'omicida: «tocca a lei quanto a noi, e più». «Andate a chiamarla», rispose Egidio: l'omicida che cercava anche un pretesto per allontanarsi, almeno per qualche momento, da quel luogo e da quell'oggetto che le era insopportabile, si avviò alla stanza di Geltrude. Questa si stava nelle angosce di chi sente l'orrore del delitto, e lo vuole. Sedeva, si alzava, andava ad origliare alla porta: intese il colpo, e fuggì ella pure a rannicchiarsi nell'angolo il più lontano della sua stanza, orribilmente agitata tra il terrore del misfatto, e il terrore che non fosse ben consumato. L'omicida entrò, e disse: «abbiamo fatto ciò ch'era inteso: non resta più che di riporre le cose in ordine: venite ad ajutarci». «No no, per amor del cielo», rispose Geltrude. «Che c'entra il cielo?» disse l'omicida. «Lasciami, lasciami» continuò Geltrude. «Come!» replicò l'omicida «chi è stata quella...?» «Sì è vero» rispose Geltrude; «ma tu sai ch'io sono una povera sciocca nelle faccende; non son buona da nulla; lasciami stare per amor...» Gli atti e il volto di Geltrude riflettevano in un modo così orribile l'orrore del fatto, che l'omicida non potè sopportare la sua presenza, e tornò in fretta presso a colui, l'aspetto del quale pareva dire: - non è nulla -. «Non vuol venire», diss'ella, con un moto convulso delle labbra, che avrebbe voluto essere un sorriso di scherno: «non vuol venire: è una dappoca». «Non importa», rispose Egidio; «non farebbe altro che impacciare; ecco tutto è finito senza di lei». «Resta ancora.
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