«Tenga queste parolacce per adoprarle in Milano con quegli spadaccini imbalsamati di zibetto, e con quei parrucconi impostori che non sapendo essere padroni in casa loro, si protestano servitore d'uno spagnuolo infingardo». E qui avvedendosi che Don Rodrigo faceva un volto serio, tra l'offeso e lo spaventato, si raddolcì e continuò: «intendiamoci fra noi da buoni patriotti, senza spagnolerie. Mi dica schiettamente in che posso servirla».
Don Rodrigo si fece da capo e raccontò a suo modo tutta la storia, e finì col dire che il suo onore era impegnato a fare stare quel villanzone e quel frate, e ch'egli voleva aver nelle mani Lucia; che se il Signor Conte avesse voluto assumere questo impegno, egli non dubitava più dell'evento. «Non intendo però», continuò titubando, «che oltre il disturbo, il Signor Conte debba assoggettarsi a spese per favorirmi... è troppo giusto... e la prego di specificare...»
«Patti chiari», rispose senza titubare il Conte, e proseguì mormorando fra le labbra a guisa di chi leva un conto a memoria: «Venti miglia... un borgo... presso a Milano... un monastero... la Signora che spalleggia... due cappuccini di mezzo... signor mio, questa donna vale dugento doppie».
A queste parole succedette un istante di silenzio, rimanendosi l'uno e l'altro a parlare fra sè. Il Conte diceva nella sua mente: - l'avresti avuta per centocinquanta se non parlavi d'infado e d'amparo -; e Don Rodrigo intanto faceva egli pure mentalmente i suoi conti su le dugento doppie.
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