Andņ dunque in su la piazza, luogo sempre popolato di oziosi, ma pił che mai in quell'anno calamitoso, in cui erano forzati all'ozio anche i pił operosi. Quella piazza di Monza come tutte le piazze, tutte le vie, tutti i campi della Lombardia presentava il pił tristo spettacolo. Poveri di professione che dopo d'avere invano domandato un soccorso ad uomini divenuti poveri anch'essi, stavano in fila l'uno appresso dell'altro appoggiati ad un muro soleggiato stringendosi di tempo in tempo nelle spalle, aggrinzati, cenciosi, aventi un bordone nella destra, e tenendo stretta tra il braccio sinistro e le costole una arida scodella di legno, aspettando l'ora d'andare a ricevere quel poco nutrimento che si poteva distribuire alle porte dei conventi, dei monasteri, di qualche facoltoso caritatevole. Qua e lą crocchj di artigiani senza lavoro, di contadini quasi senza ricolto, di possidenti altre volte agiati ma che in quell'anno sapevano di dover combattere con la fame, tutti tristi, sparuti, scorati: i pił rubesti, i meglio pasciuti che si vedessero erano qualche bravi, che vivevano delle provvigioni dei potenti a cui servivano, e ai quali nessun fornajo avrebbe osato di dare un rifiuto o di richiedere un pronto pagamento. I discorsi abituali di quei crocchj erano miseria e disperazione: vociferazioni contra i fornaj e contra gli accapparratori, imprecazioni mormorate sommessamente contro i potenti, contra i magistrati, racconti di grano partito, di grano arrivato ed occultato, di morti di fame, e di tumulti in altre terre dello stato.
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Monza Lombardia
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