Per far più presto, darò ordine tosto che due delle mie mule sieno bardate per voi e per lui. Vedete», continuò egli coll'accento di chi è compreso di ciò che dice, «vedete che in mezzo alle tribolazioni, ai contrasti, agli affanni del nostro ministero, Dio ci prepara talvolta consolazioni inaspettate, e servi inutili che noi siamo! pure ci adopera in opere nelle quali il bene è visibile, ci vuole cooperatori della sua provvidenza misericordiosa».
Le parole del Cardinale potevano esser belle, ma in questo caso erano veramente perdute. Don Abbondio all'udire un tal ordine sentì tutt'altro che consolazione; si trattava di ricondurre in trionfo, alla presenza dell'arcivescovo quella Lucia nelle cui avventure egli si trovava intrigato un po' sporcamente, nella cui storia era parte, e in un modo e per motivi di cui l'ultima persona a cui avrebbe voluto render ragione era certamente quel Federigo Borromeo. Ma questo non era ancora il peggio: si trattava di far viaggio con quel terribil Conte, di entrare nel suo castello senza saper chiaramente a che fare: tutto ciò che il curato aveva inteso raccontare in tanti anni della audacia, della crudeltà, della bizzarria, della iracondia di costui si affacciava allora alla sua immaginazione: e metteva in moto tutta quella sua naturale paura. Ma questa timidezza stessa poi non gli permetteva di rifiutare, di fare ostacolo ad un ordine così preciso dell'arcivescovo, in faccia a colui che ne sarebbe offeso. Vedendo poi quello pigliare amorevolmente la mano del terribil Conte, Don Abbondio stava guatando, come un ospite pauroso vede un padrone di casa accarezzare sicuramente un suo cagnaccio tarchiato, ispido, arrovellato, e famoso per morsi e spaventi dati a cento persone; sente il padrone dire che quel cane è bonaccio di natura, la miglior bestia del mondo; guarda il padrone e non osa contraddire per non offenderlo, e per non esser tenuto un dappoco; guarda il cane e non gli si avvicina perché teme che al menomo atto quel bonaccio non digrigni i denti e non si avventi alla mano che vorrebbe palparlo; non fa moto per allontanarsi perché teme di porgli addosso la furia d'inseguire; e non potendo fare altro, manda giù il cane, il padrone, e la sua sorte che l'ha portato in quel gagno, in quella compagnia: tali erano i sensi e gli atti del nostro povero Don Abbondio.
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