Se le sta a cuore la riuscita di questo pio disegno, non dica parola, non faccia cenno che possa dare a divedere nulla a costoro, né di quello che si vuol fare, né di quello ch'io penso. Perdoni, signor curato, se non le dico di più, se non le faccio più scuse dell'incomodo ch'ella patisce per mia cagione, ma Ella ne spera la ricompensa dal cielo, e verrà tempo in cui io potrò tranquillamente esprimerle la mia riconoscenza».
La voce dell'uomo che sgombra le rovine e le macerie, e che chiama il poveretto che è stato colto dalla caduta d'una fabbrica, e vi si trova sepolto vivo, è appena più dolce al suo orecchio che fosse quella del Conte al povero nostro Don Abbondio.
«Ah! signor Conte», diss'egli, confondendo il sentimento che voleva esprimere con quello che provava realmente, «Ella mi dà la vita. Dio sia benedetto! queste sono grazie di lassù. Tocca a me farle scusa se sono stato incivile...»
«Zitto, per amor del cielo», interruppe il Conte: «ad altro tempo le cerimonie: Ella non faccia vista di nulla, si contenga in modo che nessuno possa sapere qui s'ella giunge in casa d'un amico... o d'un tiranno». «Lasci fare, lasci fare a me»; rispose Don Abbondio. Il Conte salì di nuovo su la mula, e volto ai lettighieri, e ai palafrenieri disse loro: «Silenzio, e obbedienza: non dite né rispondete una parola in quel castello; non parlate nemmeno fra voi; silenzio insomma... e il primo di voi che fiata... Ma no!» continuò, ravvedendosi, in tuono più dolce, «figliuoli non fiatate, perché potreste far molto male a voi e ad altri.
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