Ma il Conte disse di nuovo che desiderava di attendere ivi in un canto. Perpetua lo fece sedere al posto d'onore della cucina nel banco sotto la cappa del camino; dicendo: «Vossignoria starà come potrà: veramente avrebbe fatto meglio d'entrare coi signori, che quello è il suo posto: basta, com'ella vuole: mi scusi se non posso fare il mio dovere a tenerle compagnia, perché oggi ho tante faccende: ella vede». Il Conte sedette, ringraziò, e cavato un tozzo di pane che aveva portato con sè, si diede a mangiare. Quando Perpetua vide questo, non lo volle patire. «Come?, un signore suo pari! non sarà mai detto ch'ella faccia questo torto alla mia cucina. Ecco, si serva: mangi di questo: e lasci fare a me per mandare in tavola il piatto, senza un segno: non faccia complimenti: che serve?» E come il Conte rifiutava, Perpetua gli si avvicinò all'orecchio, e gli disse a bassa voce: «Via, Signor Conte; che scrupoli son questi? so quello che posso fare: la padrona sono io qui». Ma tutto fu inutile. Il Conte ringraziò di nuovo, e continuò a rodere ostinatamente il suo pane.
Quando poi da quello che accadeva in cucina, s'avvide che erano cessati i cibi e levate le mense, fece chiedere udienza a Federigo, dal quale fu tosto fatto introdurre.
«Monsignore», diss'egli, quando gli fu in presenza, «questo è un giorno di festa singolare per questo paese e per voi, ma in questa allegrezza comune, io, io ho una parte ben diversa da tutti gli altri; il gaudio puro e sgombro della liberazione d'una innocente non è per colui che l'aveva vilmente oppressa, angariata.
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