La porta fu tosto aperta, o per meglio dire quei di dentro fecero uscire a stento il catenaccio incurvato dagli anelli squassati, e allargarono la fessura, badando bene a ragguagliarla appuntino allo spazio che occupava il gran cancelliere.
«Presto presto», diceva egli, «signori, aprite bene, ch'io entri, e voi ritenete la gente per amor di Dio», diceva agli altri, «ch'io entri solo... Così, così state», diceva ancora a quei di dentro, «non ispingete... eh! raccomando le mie costole... chiudete ora... no, eh! eh! la toga, la toga».
La toga sarebbe rimasta acchiappata fra le imposte se Antonio Ferrer non ne avesse ritirato con molta disinvoltura lo strascico, che sparve come la coda di una biscia che si rintana, inseguita.
Le imposte furono ravvicinate, e appuntellate per di dentro, mentre di fuori la porta era difesa dai benevoli, i quali andavano però gridando: «presto presto».
«Presto presto», diceva pure Ferrer ai servitori: «dov'è quest'uomo benedetto? venga venga, son qui per salvarlo». Il Vicario scendeva le scale mezzo guidato e mezzo tirato dai suoi, i quali gli persuadevano ch'era giunta la salute. Quand'egli vide il gran cancelliere, mise un gran respiro, si sentì scorrere un po' di vita per le gambe, e affrettò il passo incontro al suo salvatore. «Stia di buon animo ch'io vengo per salvarla», disse Ferrer. «Son perduto, son perduto», rispose il Vicario: «come uscire di qui? la strada è piena di gente che mi vuol morto». «Ho qui la mia carrozza: venga tosto, e confidi in Dio», disse Ferrer; e presolo per mano lo condusse verso la porta.
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