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      «Vi sono obbligato», rispose Fermo: «e vi fermerete a bere un tratto con me».
      Il resto della via fu speso in rifiuti cerimoniosi dello sconosciuto, ai quali Fermo replicava con istanze sempre più forti; tanto che entrarono insieme in una picciola osteria, e attraversato un cortiletto, lo sconosciuto, come sperto del luogo, s'accostò ad una porta, e alzato il saliscendo aperse, e introdotto Fermo, entrò con lui nella cucina.
      Due o tre lucerne appese ad altrettanti staggi appiccati ai correnti della soffitta, illuminavano la stanza, nella quale erano sparse cinque o sei tavole: su alcune si mangiava, si giocava su alcune altre, e si gridava dappertutto: e si vedevano correre danari, i quali se avessero potuto parlare, avrebbero detto probabilmente: - questa mattina noi eravamo nella ciotola d'un fornajo -. Sotto la cappa del camino stava seduto l'oste il quale stava ad udire, non parlava che quando era chiamato, evitava tutti i discorsi delle cose del giorno, e se pure veniva stimolato a dire il suo parere, rispondeva per lo più: «non so niente; io faccio il mio mestiere». Quando egli sentì muovere il saliscendo, guatò a chi entrava, riconobbe tosto la guida, e fissò gli occhi scrutatori in faccia del guidato.
      «Vi conduco un bravo avventore», disse la guida, «trattatelo bene».
      «È mio impegno», disse l'oste: «che cosa comandano questi signori?»
      Fatta questa solita interrogazione, egli esaminò ben bene il volto e la persona di Fermo, dicendo fra sè: - tu vieni con un cacciatore: o cane o lepre sarai; ma non sono l'oste della luna piena, se non ti conosco alla prima parola che dirai -.


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Fermo e Lucia
di Alessandro Manzoni
pagine 802

   





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