La nostra Agnese era lontana, a casa sua, dove pensava sempre a Lucia; e andava spesso alla villa di Donna Prassede per saper le nuove di Lucia; e le nuove le erano sempre date ottime, coi saluti della figlia. La buona donna si struggeva di rivederla, ma andar fino a Milano! In quei tempi, con quelle strade, con quella scarsezza di comunicazioni, coi bravi, coi boschi, quella era quasi una impresa di cavalleria errante; e Agnese si rassegnava all'idea di esser lontana da sua figlia, come ai nostri giorni farebbe una madre della condizione di Agnese, che avesse una figlia collocata in Inghilterra.
La povera donna aveva un'altra faccenda su le braccia: la corrispondenza con Fermo. Quantunque egli non trovasse bel paese quello dove non era Lucia, pure, sapendo com'egli stava sui registri di Milano, non ardiva scostarsi dall'asilo. Faceva scrivere ad Agnese, per chiedergli nuove della figlia; dico, faceva scrivere, perché i nostri eroi, simili in ciò a quelli d'Omero, non conoscevano l'uso dell'abbicì. Agnese si faceva leggere e interpretare le lettere, e incaricava pure altri della risposta. Chi ha avuto occasione di veder mai carteggi di questa specie, sa come son fatti e come intesi. Colui che fa scrivere, dà al segretario un tema ravviluppato, e confuso; questi parte frantende, parte vuol correggere, parte esagerare per ottener meglio l'intento, parte non lo esprimere come lo ha inteso; quegli a cui la lettera è indiritta, se la fa leggere; capisce poco; il lettore diventa allora interprete, e con le sue spiegazioni imbroglia anche di più quel poco di filo che l'altro aveva afferrato: di modo che le due parti finiscono a comprendersi fra loro come due filosofi trascendentali.
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