In qualche luogo il padrone avanzando così per la casa sua, udiva un gemito; guardava con sospetto che fosse: era un soldato che languiva infermo, che spirava: e il padrone ristava a quello spettacolo con un senso misto di ribrezzo e di pietà, di rancore e di spavento, scorgendo nel volto livido, nelle membra macchiate del giacente l'immagine confusa ma terribile della peste, che fino allora forse egli aveva sprezzata come un sogno lontano.
Il Conte argomentando da queste relazioni che Agnese se si fosse affrettata di tornare, non avrebbe però trovato nulla da guardare, la ritenne per due o tre giorni; e intanto raccolse di quello che gli rimaneva, un po' di provvigione, fece mettere insieme un po' di biancheria, qualche mobile, qualche attrezzo di cucina, e caricatone un baroccio, volle che Agnese partisse su quello con quella poca scorta, e la fece accompagnare da due suoi tarchiati servi, ordinando loro che ajutassero la povera donna a ripulire la sua casa. Agnese partì dopo molte ripulse cerimoniose e mille rendimenti di grazie, e Don Abbondio e Perpetua le andarono in compagnia.
La strada fu trista per lo spettacolo continuo della distruzione, e della disperazione; ma la giunta fu più trista ancora. Alla esclamazione cento volte ripetuta di «povera gente» succedette il «povero me»: parola che generalmente parlando esce da una parte più profonda.
Cogli ajuti del Conte, Agnese potè quel primo giorno spazzare il suo povero abituro, ricogliere qualche masserizia sparsa qua e là nell'orto e nel campo, scavare ciò che aveva deposto sotterra; e tra con questi rimasugli, e con quel di più che il Conte le aveva dato appresso, allogarsi in casa se non come prima, almeno in modo da poterci stare passabilmente, anzi da eccitare l'invidia dei suoi paesani.
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