Ma il povero Don Abbondio questa volta ebbe campo e ragione più che mai di sclamare: «oh che gente! oh che gente!» La sua casa era la più mal trattata del villaggio, perché era la più apparente; e gli ospiti eroi sospettando che ci dovesse esser più che altrove ricchezza nascosta, vi avevano impiegato più ostinate cure a metter tutto sossopra. Il sospetto non era mal fondato, né le cure erano state inutili: e Perpetua mettendo il piede su la soglia tra mezzo i mobili spezzati, i fogli lacerati, e le piume delle sue galline, scerse tosto con raccapriccio frantumi e brani di quelle cose ch'ella pensava aver meglio appiattate; e dovette confessare che i lanzichenecchi avevan più ingegno a scovare, ch'ella non avesse a nascondere. Don Abbondio, spinto innanzi dall'ansia di vedere i fatti suoi, e rispinto dal ribrezzo e dall'orrore, metteva il capo alla porta d'una stanza, e lo ritraeva, dava tre passi, e ristava. Quale spettacolo! Ogni stanza oltre il guasto che presentava, dava tosto l'idea del guasto generale; i segni d'un vasto saccheggio erano ristretti in un picciolo angolo, come idee sottintese in un periodo scritto da un uomo di garbo. Sul focolare della cucina per esempio si vedevano più tizzoni spenti, i quali accennavano ancora d'essere stati un bracciuolo di seggiola, il piede d'un trespolo, un'imposta d'armadio, una doga del botticino dove Don Abbondio teneva il vino che per una lunga esperienza aveva riconosciuto il migliore amico del suo stomaco. Di questi e di tanti altri mobili non restavano che rottami, un po' di cenere, e di carboni spenti; e con quei carboni, come per compenso, e per un complimento al padrone, i guastatori avevano schiccherate le pareti di visacci, ingegnandosi con berretti quadri e altre divise di raffigurarne dei preti, e studiandosi di farli orribili e ridicolosi; intento che per verità non poteva fallire a tali artisti.
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