Gli abbiamo dunque riserbati ad un'appendice, che terrà dietro a questa storia, alla quale ritorniamo ora; e davvero.
CAPITOLO V
Una sera, verso il mezzo d'Agosto, Don Rodrigo tornava alla sua casa in Milano, dove era sempre rimasto dal giorno che vi era tornato dalla villa in forma di fuggitivo. A quella villa non voleva ricomparire se non in aspetto di vendicatore, e in modo da restituir con usura ai tangheri lo spavento, e l'umiliazione che gli avevan fatto provare: ma i tempi non erano mai stati propizj.
Quella elazione d'animi aveva durato qualche tempo; di poi la fame cresciuta aveva prodotti gli sbandamenti, e il vagabondare di molti, e nei rimasti un fermento di disperazione: erano cani tuttavia ringhiosi, e non ancora disposti ad accosciarsi sotto la mano alzata del signore; poi eran passati i lanzichenecchi, che avevano spogliato il castellotto; poi era venuta la peste; non v'era insomma stata mai una tranquillità di cose in cui Don Rodrigo avesse potuto farsi sentire. La sera di cui ora parliamo, tornava egli da uno stravizzo, nel quale con alcuni suoi degni amici aveva egli cercato di sommergere le malinconie e i terrori della peste. E siccome le idee di quella entravano per tutti i sensi, si trovavano accumulate nella mente, si associavano per forza ad ogni suo intendere, sicché non era possibile farne astrazione; in quelle idee stesse s'erano essi sforzati di trovare qualche soggetto d'ilarità. Avevano ricapitolate burlescamente le virtù di qualche loro amico defunto; e Don Rodrigo in ispecie aveva molto divertita la brigata con l'orazione funebre del conte Attilio.
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