che tanto gli stava a cuore, e col battito di non ritrovarla, di non ritrovar pure chi gli sapesse dire s'ella viveva.
Per giungervi, doveva Fermo passare su la piazzetta della chiesa, dov'era pure la casa del curato. Quando fu in luogo donde la piazza si poteva vedere, guardò egli alla casa del curato, e vide una finestra aperta, e nel vano di quella un non so che di bianco-giallastro in campo nero, una figura immobile appoggiata ad un lato della finestra.
Era Don Abbondio in persona, e ad una certa distanza poteva parere un vecchio ritratto di qualche togato, scialbo per natura, per l'arte del pittore, e per l'opera del tempo, appeso di traverso fuori al muro, per la buona intenzione di ornare qualche solennità. Fermo che aveva sospettato chi doveva essere, arrivato su la piazza lo riconobbe, e da prima, tornandogli a mente che egli era una delle cagioni delle sue traversie, sentì rivivere un po' di stizza, e volle passar di lungo. Ma tosto l'antico rispetto pel curato, quel desiderio di sentire una voce umana e conosciuta così potente in quelle circostanze, la speranza di risapere da lui qualche cosa che gl'importasse, vinsero nell'animo di Fermo, che si arrestò, fece una riverenza, e dirizzando il volto alla finestra, disse: «Oh signor curato, come sta ella in questi tempi?» Don Abbondio aveva guatato costui che veniva, gli era sembrato di riconoscerlo: ma quando sentì la voce che non gli lasciava più dubbio, «per amor del cielo!» disse, «voi qui? Che venite a fare in queste parti?
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Fermo Don Abbondio Fermo Abbondio
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