Ad ogni passo, nuovi oggetti altra volta veduti, rendevano più vivo e più chiaro il riconoscimento di Fermo; ma dove ebbe la perfezione fu al passare dinanzi alla piazza, al convento dei capuccini. Allora riconobbe la porta orientale; si risovvenne che al di fuori di quella era il lazzeretto; e per quanto pieno di dolore, di difficoltà, e d'angosce fosse l'affare che lo strascinava in quel luogo, pure il povero giovane si sentì tutto rincorato nel pensiero d'esservi giunto senza studio, sicuramente, in carrozza, quale ella si fosse; questo gli parve un buon principio, e un buon augurio. Oltrepassato il convento, Fermo pensò che sarebbe meglio spacciarsi da quella compagnia e uscir dalla porta a piede. Vide che i monatti invasati nel loro canto non badavano a lui, fece un cenno di saluto e di ringraziamento ad uno che gli era più vicino, e balzò dal carro in sul pavimento. Quel monatto lo accompagnò con un saluto schernevole della mano e del volto, dicendogli: «va, va, povero untorello: tu non sarai quello che spianti Milano». Per buona sorte non v'era anima vivente nella via che potesse udire quelle parole. Fermo s'indugiò, tirando presso al muro, tanto che il carro si allontanasse; e a passo lento giunse presso alla porta; vide spuntare l'angolo di quel recinto, dove erano addensati più guai che non ne fossero sparsi nella dolorosa città ch'egli aveva percorsa: passò il cancello, e gli si spiegò dinanzi la scena esteriore del lazzeretto; il principio appena, e come la mostra dei guai, e già una vasta, diversa, inenarrab
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Fermo Fermo Milano
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