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      Quando vide lontano per mezzo a quella varietà di cose e di movimenti un altro capuccino che presso ad una gran pentola andava riempiendo scodelle, e le portava nelle capanne, o le distribuiva presso di sè nel campo aperto.
      Risolse allora di condursi da quella parte, e di chiedere al frate un poco di quel nutrimento, persuaso ch'egli non lo negherebbe ad un affamato quantunque sano. Camminando sempre verso quel luogo, e tenendo di mira il pentolone, perché il frate andando attorno spariva di tratto in tratto ai suoi occhi per gli oggetti frapposti, lo vide finalmente sedersi anch'egli, su la porta d'una capannuccia, e recarsi in mano una scodella, e mangiare. Era il frate rivolto con la faccia verso Fermo che veniva; e questi guardandolo più attentamente credette di scorgere una somiglianza singolare, della persona, perché non era tanto vicino che potesse nulla discernere dell'aria del volto. In quel baleno sentì egli una gioja, una speranza improvvisa; ma ricordandosi tosto ciò che Agnese gli aveva detto di Palermo, di quel paese di là dal mare, cacciò quella speranza come una illusione. E pure ad ogni passo la somiglianza diveniva più forte, più viva, il frate diveniva il Padre Cristoforo.
      Era proprio il Padre Cristoforo. Alle prime novelle che s'erano avute in Palermo della peste dichiarata in Milano, il nostro buon frate a cui quarant'anni di tonaca e di capuccio non avevan potuto togliere dalla mente una rimembranza del tempo in cui portava cappa e spada, e che aveva desiderato per quarant'anni di finir la sua vita spendendola pel prossimo, colse con trasporto quella occasione e scrisse a Milano supplicando d'essere chiamato al servizio degli appestati.


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Fermo e Lucia
di Alessandro Manzoni
pagine 802

   





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