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      Non possiamo però ommettere una circostanza singolare di quel convito: il padrone non vi sedè; allegando che il pranzare a quell'ora non si confaceva al suo stomaco. Ma la vera cagione fu (oh miseria umana!) che quel brav'uomo non aveva saputo risolversi a sedere a mensa con due artigiani: egli, che si sarebbe recato ad onore di prestar loro i più bassi servigi, in una malattia. Tanto anche a chi è esercitato a vincere le più forti passioni è difficile il vincere una picciola abitudine di pregiudizio, quando un dovere inflessibile e chiaro non comandi la vittoria.
      Il terzo giorno, la buona vedova con molte lagrime, e con quelle promesse di rivedersi, che si fanno anche quando s'ignora se e quando si potranno adempire, si staccò dalla sua Lucia, e tornò a Milano: e gli sposi con la buona Agnese che tutti e due ora chiamavano mamma, preso commiato da Don Abbondio, diedero un addio, che non fu senza un po' di crepacuore ai loro monti, e s'avviarono a Bergamo. Avrebbero certamente divertito dalla loro strada, per far una visita al Conte del Sagrato, ma il terribile uomo era morto di peste contratta nell'assistere ai primi appestati.
      La picciola colonia prosperò nel suo nuovo stabilimento, col lavoro e con la buona condotta. Dopo nove mesi Agnese ebbe un bamboccio da portare attorno, e a cui dare dei baci chiamandolo «cattivaccio». Ella visse abbastanza per poter dire che la sua Lucia era stata una bella giovane e per sentir chiamare bella giovane una Agnese che Lucia le diede qualche anno dopo il primo figliuolo.


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Fermo e Lucia
di Alessandro Manzoni
pagine 802

   





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