– Per grazia del cielo, – continuò Lucia, – quel giorno era l'ultimo della filanda. Io raccontai subito...
– A chi hai raccontato? – domandò Agnese, andando incontro, non senza un po' di sdegno, al nome del confidente preferito.
– Al padre Cristoforo, in confessione, mamma, – rispose Lucia, con un accento soave di scusa. – Gli raccontai tutto, l'ultima volta che siamo andate insieme alla chiesa del convento: e, se vi ricordate, quella mattina, io andava mettendo mano ora a una cosa, ora a un'altra, per indugiare, tanto che passasse altra gente del paese avviata a quella volta, e far la strada in compagnia con loro; perché, dopo quell'incontro, le strade mi facevan tanta paura...
Al nome riverito del padre Cristoforo, lo sdegno d'Agnese si raddolcì. – Hai fatto bene, – disse, – ma perché non raccontar tutto anche a tua madre?
Lucia aveva avute due buone ragioni: l'una, di non contristare né spaventare la buona donna, per cosa alla quale essa non avrebbe potuto trovar rimedio; l'altra, di non metter a rischio di viaggiar per molte bocche una storia che voleva essere gelosamente sepolta: tanto più che Lucia sperava che le sue nozze avrebber troncata, sul principiare, quell'abbominata persecuzione. Di queste due ragioni però, non allegò che la prima.
– E a voi, – disse poi, rivolgendosi a Renzo, con quella voce che vuol far riconoscere a un amico che ha avuto torto: – e a voi doveva io parlar di questo? Pur troppo lo sapete ora!
– E che t'ha detto il padre? – domandò Agnese.
– M'ha detto che cercassi d'affrettar le nozze il più che potessi, e intanto stessi rinchiusa; che pregassi bene il Signore; e che sperava che colui, non vedendomi, non si curerebbe più di me.
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