Perpetua richiuse, più per non trascurare una formalità, che per fede che avesse in quella toppa e in que' battenti, e mise la chiave in tasca. Don Abbondio diede, nel passare, un'occhiata alla chiesa, e disse tra i denti: – al popolo tocca a custodirla, che serve a lui. Se hanno un po' di cuore per la loro chiesa, ci penseranno; se poi non hanno cuore, tal sia di loro.
Presero per i campi, zitti zitti, pensando ognuno a' casi suoi, e guardandosi intorno, specialmente don Abbondio, se apparisse qualche figura sospetta, qualcosa di straordinario. Non s'incontrava nessuno: la gente era, o nelle case a guardarle, a far fagotto, a nascondere, o per le strade che conducevan direttamente all'alture.
Dopo aver sospirato e risospirato, e poi lasciato scappar qualche interiezione, don Abbondio cominciò a brontolare più di seguito. Se la prendeva col duca di Nevers, che avrebbe potuto stare in Francia a godersela, a fare il principe, e voleva esser duca di Mantova a dispetto del mondo; con l'imperatore, che avrebbe dovuto aver giudizio per gli altri, lasciar correr l'acqua all'ingiù, non istar su tutti i puntigli: ché finalmente, lui sarebbe sempre stato l'imperatore, fosse duca di Mantova Tizio o Sempronio. L'aveva principalmente col governatore, a cui sarebbe toccato a far di tutto, per tener lontani i flagelli dal paese, ed era lui che ce gli attirava: tutto per il gusto di far la guerra. – Bisognerebbe, – diceva, – che fossero qui que' signori a vedere, a provare, che gusto è. Hanno da rendere un bel conto!
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