V'impiegai quattro giorni di assiduo lavoro, ed arrivai in Milazzo a battaglia finita.
Battevano le otto pomeridiane, e Garibaldi dormiva.
Nell'uscire dal quartier generale intesi chiamarmi dal maggiore Mosto, appoggiato ad un balcone di faccia.
Varcata la soglia d'una grandissima porta, mi trovai nel chiostro d'un monastero mutato in ospedale. Salii: nei lunghi corridoi poca paglia o qualche rara coperta erano letto ai feriti più avventurati; gli altri giacevano sul pavimento col capo appoggiato sulla bisaccia del pane, unico guanciale. C'erano feriti dei due campi.
Strinsi la mano a Mosto tutto polveroso, rotto dalla fatica e triste, congratulandomi di ritrovarlo vivo e sano.
- È andata bene! gli feci; narrami.
- Vincemmo, ma a caro prezzo. Il mio corpo decimato secondo il solito.
- Come si diportò Ungarelli?
- Da valoroso.
- E come dubitarne? Ho gran voglia di rivederlo.
- Trovasi laggiù nel cortile.
- Dove? costà?
- Sì. Morì sul campo d'una palla in fronte. Venne raccolto cogli altri miei e trasportato quivi.
- Morto!
- Non lo sapevi?
Mi si agghiacciò il sangue. Così giovane, così bello, così intelligente, così buono! Io non potevo associare l'idea della morte a tanto splendore di vita. Mosto per distarmi mi variò dolore.
- Gli otto superstiti compagni di Pisacane, che mi raccomandasti, si segnalarono. Cinque sono caduti.
- Li trasportarono a Barcellona, soggiunse mia moglie approssimatasi a noi in quel punto. Rota, Bonomi e Cori si potranno salvare, ma non credo Conti e Sant'Andrea.
- Quant'altri de' miei, signora Jessie, avete in custodia? le dimandò il maggiore.
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