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      Postomi alla testa dell'ala destra, cinquanta uomini, salii l'asciutto torrente di Alta Fiumara. I sassi bianchi ond'era aspro il letto riflettevano una certa specie di chiarore in mezzo al buio fittissimo che c'involgeva da circa mezz'ora. Toccai prestamente la strada maestra, e snodai alla bersagliera la mia squadra per approssimarmi inavvertito al forte.
      Sopravvenuta una vettura a tre cavalli, ne feci scendere i passeggieri ingombri d'improvviso stupore, non forse dalla presenza di gente armata, sibbene dal non paesano accento.
      - Donde venite?
      - Da Reggio e andiamo a Scilla. Siamo calabresi.
      - Tranquillizzatevi. Non vi vogliamo alcun male. Ma per ora dovete sostare.
      - Signore, viaggiamo per negozi privati.
      - A voi Calabresi saranno famigliari questi monti.
      - Io li conosco, disse impetuosamente un giovinotto. Come cacciatore li tentai per ogni verso.
      - Va bene, tu verrai meco mezz'ora.
      - Signore, interruppemi altro di loro con voce di pianto, il mio unico figlio! abbiate compassione d'un povero vecchio. Anch'io ho pratica dei siti; concedetemi in grazia ch'io v'accompagni in cambio di lui.
      - Verrete entrambi. Non ho un minuto da perdere. Chi mi regala un sigaro?
      Tutti ad un fiato: - Io.
      Avuto il sigaro, fu acceso uno zolfanello, e a quella fiamma brillò la camicia rossa.
      - Ah! esclamarono esultando, garibaldini! Quando sbarcaste? quanti siete? c'è Garibaldi? Nella tempesta dei quesiti mi diedero baci e strette di mano e di braccia e di collo.
      Poi con favella ansiosa soggiunsero: - Badate, signor capitano, che a un quarto d'ora di qui oltrepassammo un battaglione di regii, diretto a Scilla per rilevare i presidî dei forti.


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La camicia rossa
di Alberto Mario
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