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      S'era in sessanta, e giudicammo miglior consiglio indurre il nocchiero a sbarcarci nella Gran Bretagna. Mi chiamo Gerace e nacqui calabrese.
      - Ecco! vi conobbi a Londra.
      - Tornai in Calabria di nascosto per prepararci degnamente ai nuovi eventi. Garibaldi si mostrerà contento della mia patria.
      Egli si assunse di traversare nella notte lo Stretto con nostre lettere al Generale. Il lapis c'era, ma la carta mancava.
      L'arrivo delle mule e la tirannia dell'appetito interruppero la ricerca della carta.
      - Ecco qua la carta, disse il maggiore mostrando un foglio greggio che avvolgeva una forma di caciocavallo; e vi stese il rapporto al dittatore. Sopra un pezzo rimasto io scrissi a mia moglie, per assicurarla col fatto della scrittura ch'ero vivo e sano.
      - Sans adieu, disse Gerace nel dispartirsi da noi. Ricomparirò con una mano di Calabresi entro due giorni. Le scolte del nostro piccolo accampamento annunciarono la colonna del comandante. Sospese le mense, si aspettarono gli amici.
      Per più ruinosi sentieri del nostro arrampicaronsi essi, e noi li rivedemmo stracciati e sparuti. Ma l'insperata refezione e il favoloso bicchier di vino distribuito a ciascheduno rinnovellarono gli spiriti afflitti e fecero dimenticare le sopportate tribolazioni.
      Rimessi in cammino e traversato l'altipiano, ci arrestammo ad una fattoria che sorge al piede del monte di Sant'Angelo. Ivi piantammo gli alloggiamenti. La fattoria, vecchio edificio solidamente costrutto e chiuso, aveva le sembianze d'un castello. Secolari faggi ombreggiavano i suoi dintorni, temperavano gli ardori quasi tropicali dell'agosto in quell'ultima regione d'Italia, e davano asilo alla nostra milizia.


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La camicia rossa
di Alberto Mario
pagine 232

   





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