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      Lungamente esule, pratico di varie genti, accostumato alle lotte della politica, aveva acquistato quella destra pieghevolezza che schiva la discussione ardente, e concede posto d'onore all'altrui opinione, quell'arte di non istancare con prolisso discorso, quella perspicacità di svolgere un'idea alla volta, inducendola da un fatto, ma celando che essa fosse la morale della favola.
      La presenza di lui turbò i pensieri del nostro comandante. Calabresi entrambi, agognavano al primato nelle Calabrie, e l'uno appariva intoppo all'altro. Benché il comandante fosse colonnello e garibaldino solamente da una settimana, Plutino vedeva con occhio torbido sul crine del duce del primo sbarco in Calabria tremolare una fronda qualunque d'alloro, che mancava alla propria corona; presagiva che l'evento, benché fallito nel suo primo scopo, avrebbe procurato al rivale una pericolosa celebrità; se ne rodeva e meditava di scavalcarlo. Di poco favorevoli apparenze, piccolo, magrissimo e livido, il comandante non possedeva né eloquenza, né scienza, né pratica militare. Mi sollecitò in Milazzo di condurlo in assisa di colonnello alla presenza di Garibaldi. Dichiaratoglisi esperto dei luoghi e degli uomini calabresi, e in segrete comunicazioni coi soldati del forte d'Alta Fiumara, ci s'impegnò di consegnargli il forte in una notte, se condottiero di pochi dal cuore saldo. Il patriottismo di lui era provato, il coraggio presunto, non dubitabili i concerti narrati. Tanto bastava al Generale per affidargli l'impresa.


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La camicia rossa
di Alberto Mario
pagine 232

   





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