L'impossibilità di trasportare i feriti tra quegli scoscendimenti ci obbligò di lasciarli a Solano. Il nemico trasseli prigionieri, ma li trattò con umanità, forse considerando che anche noi ne avevamo dei suoi. Un messo speditoci da un patriota di Solano riferì ch'ei vennero trasferiti a Reggio.
Entro un mese andremo a riprenderceli, gli disse Missori. Un fuggevole sogghigno d'incredulità sfiorò la bocca dell'astuto messaggiere montanaro. E la medesima incredulità mantenne inespugnabili al nostro apostolato i prigionieri borbonici. Impossibile indurli a militare sotto la nostra bandiera e a ridiventar liberi. Anteposero il proprio stato, benché dovessero seguirci e partecipare ai nostri pericoli. Io particolarmente mi occupai di convertirli alla religione della patria italiana. Ma non m'è venuto fatto nemmeno d'ottenere il menomo ragguaglio sulle cose del nemico. A qualunque quesito, l'uno come l'altro, regolarmente rispondeva: - Non saccio.
Il messaggiere per cortesia non rivocò in dubbio l'asserzione del maggiore, né bastatogli l'animo di spingere l'adulazione sino a simulare di aggiustar fede a ciò ch'ei giudicava l'assurdo, mutò discorso, avvertendo che aveva seco la cassetta dei medicinali, e una sacchetta di biancheria per filaccie commessa da noi a Solano. Così dopo una settimana poté curarsi la mano del veneto ferito la prima notte, impassibile come uno spartano, arguto come un ateniese. Il chinino ci restituì una mezza dozzina di malati della terzana: ma senza lacryma-cristi e senza bistecche non erano sanabili altri sei o sette esinaniti dalle fatiche.
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