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      Il mio pensiero pareva anch'esso gelato come le membra. L'ultima e forse l'unica cosa pensata fu che Cocito, ove si gela, era troppo più terribile pena di Malebolge ove si brucia, e che Dante se ne intendeva.
      Trascorse quelle tre ore assassine, venne comandata di rimettersi in viaggio. Fatti venti passi a guisa d'ubriaco, ricuperai via via l'uso delle giunture e della coscienza, e ridiventai me stesso. Si camminò indefessamente tutta la notte, e fra le altre contentezze si dovette guadare un torrente sino all'inguinaia, ma, rincalorite le membra, non ci si abbadò gran che. Abbiamo corso il tramite d'una freccia tra quelle foreste e quei valloni verso mezzodì, per isguizzare dall'abbracciamento stimato inevitabile del destro corno borbonico.
      La subita partenza ci crucciò soltanto in causa della munizione. Temevamo che il nemico l'avesse sorpresa strada facendo, e per giunta avesse fucilato i portatori. Non potevamo attenderla a Pedavoli senza essere tagliati fuori da Aspromonte, senza smarrire l'obbietto delle nostre manovre.
      Il momento era grave. Il nemico, dieci volte più poderoso, c'inseguiva come un limiero. Qualche giorno ancora e avrebbeci presi o gettati in mare. Impossibile, né voluta, una contromarcia al nord. L'opportunità e la fortezza dei siti rese inutili dal difetto delle munizioni. O cedere o morire. Il dilemma sfolgorava dinanzi agli occhi ardente e inesorabile. Spartite le poche vivande della casa dei Forestali, furono scarsa colazione. Nessuna speranza di mule per il desinare.


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La camicia rossa
di Alberto Mario
pagine 232

   





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