Se non che lo spirito garibaldino, forse per alcuna ora sopito nel mio cuore, si ridestò repente e disperse tutte sì fatte anticaglie. Rammentando che entrammo in quattordici a Napoli e che Napoli fu nostra, scrissi un biglietto di contrordine alla guardia del Borgo e comandai al mio seguito: - A cavallo per Forio.
Dissi e me ne andai dalla sala troncando a metà il gesto e la parola del sindaco allibito. Rimontammo sui nostri asini, io in testa di colonna, poi mia moglie, poi il sergente e in coda il sindaco. All'ultima svolta della strada, un miglio da Forio, nuvoli di polvere annunciavano la popolazione in marcia. Appena i ribelli ci poterono discernere, s'intese un fragore come di tuono, e i più prossimi a noi correndo e ululando ci si avventarono addosso con aspetto di forsennati, ci abbracciarono e baciarono piangendo e delirando. Era una miscela di ragazzi, di signore, di contadini e di giovani bennati. - Garibaldi! Garibaldi! Biondi la barba e i capelli, mi scambiarono per Garibaldi. Li assicurai che non ero Garibaldi.
- Non importa, è la stessa cosa.
Alcuni notabili presero le redini del mio asino; le signore e le fanciulle, vestite di bianco e ornate di bende tricolori, circondarono mia moglie, e una di loro spiegò su lei un'ombrella di damasco e d'oro, l'ombrella del Viatico, e le colmarono il grembo di mazzi di fiori che ad ogni passo dell'asino cadevano a destra e a mancina e venivano surrogati da nuovi mazzi. Nel momento dell'ingresso in città si udì uno scoppio di mortai, il suono di tutte le campane e di bande musicali; le finestre parate di scialli e di tappeti; la contrada letteralmente coperta di fronde e di fiori, e noi si procedeva sotto una pioggia di confetti e di ghirlande.
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